Come ogni paesaggio e come ogni altro luogo, anche Ostra Vetere nel corso degli anni ha mutato volto e facciata.
Cambiare fa parte delle cose. A volte è dovuto al caso o al corso naturale degli eventi, altre no. A volte è da prendere come un dato positivo, altre come una disdetta. A volte si parla di meriti e di fortuna, a volte di sfortuna e di colpe. Il risultato, però, alla fine è quasi sempre lo stesso: le realtà sfumano, sfuggono e infine si perdono, in specie per i più giovani.
Al contrario di quanto si può pensare, a Ostra Vetere il teatro ha radici antiche. Le fonti attestano la presenza di un locale adibito a spettacoli pubblici, all’interno dell’edificio comunale, già nella seconda metà del Seicento. Di questo, però, non sappiamo molto.
Dal secondo Settecento, invece, le notizie si fanno più precise. Le cose cambiano radicalmente quando una schiera di impresari montenovesi si attiva per dare il la ad una nuova era della vita comune. Michele Innocenzi, in veste di portavoce di tutti i nobiluomini interessati, partecipa al Consiglio Comunale del 2 Marzo 1776 per presentare la proposta alla pubblica amministrazione: avrebbero costruito a loro cura e spese un nuovo teatro, alla sola condizione che il Comune avesse concesso, per l’opera, l’inutilizzato pianterreno sopra il mulino dell’olio.
La Sacra Congregazione del Buon Governo, organo dello Stato della Chiesa, di cui Montenovo fa parte, con nove voti a favore, tre contrari e un solo astenuto, accoglie la richiesta.
Dopo alcune lungaggini burocratiche, arriva l’autorizzazione. Così iniziano i lavori, ma i tempi non sono di certo brevi. Dopo dieci anni, nel 1786, il teatro non è ancora compiuto e già si prospetta il primo imprevisto. I fondi scarseggiano, così il Comune decide di intervenire e l’accordo viene rivisto: la comunità di Montenovo compartecipa alle spese acquistando per 60 scudi il Palco del Magistrato, il cosiddetto palchetto nobile, tribuna centrale della prima fila, destinato all’uso del “Giudice, Magistrato e Foresteria Civile”, dotato addirittura di un ingresso autonomo.
L’opera giunge a compimento. L’ingresso per il pubblico è collocato nella facciata principale dell’edificio, dove oggi è l’Ufficio Protocollo, mentre gli attori accedono ai camerini attraverso la porta adiacente alla cinta muraria, l’attuale sede dell’addetto alle affissioni. All’interno, invece, in fondo a destra rispetto all’atrio d’ingresso, si trova il botteghino, gestito da un oste del paese.
La struttura è maestosa e moderna, può ricevere ben 300 persone, attentamente distribuite secondo i rigidi canoni sociali del tempo. I 22 palchi condominali, suddivisi in due file, per i nobili del paese, ai quali si accedeva salendo due rampe curve piuttosto anguste; la platea per gli “artieri”, una sorta di classe media; e infine il loggione, in alto, per il popolino.
Per non incorrere in questioni sgradite e incagli amministrativi, si stila immediatamente un regolamento per la gestione e l’amministrazione, ripartito in cinque capitoli, intitolati testualmente “Della Polizia Interna”, “Della Polizia Esterna”, “Del Caffè o del Botteghino”, “Del Custode”, “Disposizioni Generali”. Viene inoltre istituito un comitato direttivo, composto da tre condomini eletti periodicamente, il quale stabilisce che l’uso del nuovo complesso teatrale è concesso alle “compagnie forastiere e ai dilettanti del paese” esclusivamente a seguito di richiesta.
Sin da subito, la sala ospita ogni sorta d’intrattenimento artistico, dalle rappresentazioni drammatiche a quelle dei burattini, dai prestigiatori ai saltimbanchi, dalle esibizioni artistiche a quelle canore. Ne è un esempio l’Accademia organizzata il 28 Maggio del 1812 in onore della sacra visita del Cardinale Vescovo di Senigallia, accolto da fuochi artificiali e spettacoli meravigliosi. Inoltre, grazie alla particolare conformazione della costruzione, la sala è sede abituale delle feste di carnevale e delle numerose serate danzanti che animano il paese. La platea, infatti, non è fissa, ma mobile. Il piano di legno su cui poggia può essere sollevato per mezzo di due martinetti azionati a mano, posti sotto la volta del “cantinone” (oggi Cantina della Legnaia, accanto all’ufficio della Polizia Municipale). In questo modo, platea e palco possono essere allineati, aumentando notevolmente l’ampiezza e l’accoglienza della struttura, per essere poi ridisposti in seguito a piacimento e a bisogno.
A partire dal primo Ottocento, le notizie abbondano. Francesco Procaccini, nobile di Morro d’Alba “spatriato” a Montenovo, si diletta nella scrittura. Nel 1815, il gentiluomo, per riempire il vuoto che domina le sue lunghe giornate da signorotto di campagna, inizia a tenere un diario personale. L’oggetto principe delle annotazioni è il paese e la vita dei suoi abitanti, in particolare quella della nobile gente. Così, con cura e costanza certosine, il Procaccini registra ogni evento mondano.
In tutto ciò, nemmeno a dirlo, al teatro spetta un ruolo di rara evidenza. Non è difficile a credersi. Se si escludono gli eventi religiosi, gli spettacoli teatrali sono la sola occasione d’intrattenimento comune. In tempi di certo diversi dai nostri, è quello l’unico luogo di svago in cui le classi sociali si incontrano, dove i nobili e possidenti incrociano i benestanti, i contadini e i braccianti, e insieme assistono allo stesso spettacolo, applaudono gli stessi attori e fischiano gli stessi commedianti.
Nel diario del Procaccini le annotazioni in merito abbondano, sfiorando quasi la quotidianità. Il 20 Gennaio 1822, ad esempio, scrive: “Questa sera è andata in scena la Commedia La Guerra Aperta rappresentata dai nostri SS.ri Dilettanti”; il 12 Dicembre 1827: “Questa Sera circa Un’ora di Notte è giunta da Fano la Compagnia de Cantanti di Musica…”; il 4 Febbraio 1833: “Questa sera la Compagnia Burattinesca è andata a rappresentare il Feudatario…”; è poi riportata con scrupolosa esattezza anche l’estrazione a sorte del 1837, con cui si assegnarono i 21 palchi privati, ed ecco che spiccano alcuni nomi noti: Ricci, Monti, Buti, Rossi, Garofoli.
La minuziosa e appassionata osservazione del Procaccini si esaurisce nel 1840, anno in cui, ormai settantenne, cessa di vivere il 20 Dicembre. Ma la vita del teatro prosegue. Nel 1861, la Compagnia dei Filodrammatici raggiunge un accordo con il comitato direttivo e si impegna a inscenare non meno di 15 rappresentazioni. Nel 1863 il Consiglio Comunale decide di appoggiare ancora la struttura, l’anno successivo concede un finanziamento di 65 scudi e nel 1865 si tengono ancora 16 rappresentazioni. Con i moti risorgimentali, l’atmosfera cambia. Lo Stato della Chiesa è già ben circoscritto attorno a Roma e Montenovo non ne fa più parte. È questo il periodo in cui prendono corpo, in tutta Italia, i movimenti anticlericali, e il nostro teatro ne esce rivalutato.
Il Comune elargisce denaro agli impresari perché inscenino spettacoli in occasione e a scapito dei riti sacri, perfino (e soprattutto) durante la quaresima. L’attività è frenetica, le compagnie abbondano e la qualità degli eventi è di tutto rispetto. Nel 1866 e 1867 il Comune versa un contributo di ben 50 lire, che addirittura raddoppieranno negli anni successivi, e sempre in questo periodo risalta la presenza di un certo Fortunato Vigoreaux, olandese in tournee, maestro di arte ed esercizi atletici, come anche numerose esibizioni di tenori e altri interpreti di fama internazionale.
Dal censimento nazionale delle sale pubbliche del 1869, risulta che il locale ha nome Teatro Concordia. È ancora idoneo a ospitare 300 persone, tuttavia la cadenza degli spettacoli si ridimensiona. Nel 1873 non si tiene alcuna rappresentazione, ma solo feste danzanti. Nello stesso anno è istituito il primo Concerto Strumentale della Società Filarmonica (quello che diverrà poi, e ancora è, il Concerto cittadino) e il teatro ne risente. La popolazione non è di certo numerosissima, la musica sottrae spazio ed energie alla passione drammatica, ma non tanto da soffocarla.
L’attività continua. Il 15 Luglio del 1879 la comunità organizza uno spettacolo di beneficenza a favore degli alluvionati del Po’ e degli sfollati dell’eruzione dell’Etna, mentre nel 1882 si tengono numerosi eventi per festeggiare il nuovo nome del paese, anche allo scopo di calmare gli animi (piuttosto scontenti e nervosi) dopo la nota disputa con Montalboddo. Ma ecco che sorgono anche i primi problemi tecnici. Nel 1887 il prefetto di Ancona invia a Ostra Vetere l’ingegnere Tramontani, il quale dispone che siano eseguiti alcuni lavori di manutenzione per migliorare la sicurezza e riportare il locale entro i parametri di legge. Prescrive l’uso di candele, di oli vegetali (per l’illuminazione del palco e della ribalta) e non più di petrolio, l’istallazione di due vasche d’acqua da 300 litri l’una accanto al palcoscenico da usare in caso d’incendio, l’apertura di una nuova porta come uscita di sicurezza e l’allargamento di quella già esistente.
Finché non saranno eseguiti i lavori, il prefetto autorizza soltanto feste da ballo. Ma gli impresari adempiono e le attività riprendono. È il 1888, e l’anno successivo il Concordia ospiterà anche il veglione di capodanno, che attirerà moltissima gente tra i compaesani.
L’attività della Filodrammatica continua regolarmente anche nel nuovo secolo, con buon ricambio di Direttori Artistici, ma non basta. Arriva il cinema, più tardi arriverà anche la televisione.
Durante il ventennio fascista le rappresentazioni continuano in alternanza alle feste, che comunque impegnano la sala nella maggior parte dei casi. Nel 1942 viene rappresentata “La Locandiera” di Goldoni, seguita da alcune repliche della commedia “Addio Giovinezza”, opera dei dilettanti del posto. Poi la guerra chiuderà le porte alla vita pubblica. Fino al 1946, quando la passione impererà di nuovo, insieme alla voglia di reagire e a quella di dimenticare. Così il teatro riapre i battenti. Un folto gruppo di giovani compaesani si rimbocca le maniche per inscenare una magnifica parodia di “Romeo e Giulietta”. La giovane veronese è impersonata da Americo Puerini, personaggio popolare di risapute capacità artistiche, e Romeo da Giannino Pancotti, mentre le scenografie create da Gualtiero Girolimetti, a detta dei ricordi, sono eccezionali. Quello che ne viene fuori è un grande successo. Fioccano gli applausi, l’entusiasmo è alle stelle. Ci saranno le repliche e partirà addirittura una tournee per i paesi vicini. Purtroppo sarà proprio questo l’ultimo atto del Teatro Concordia, una degna morte, l’ultimo grande fuoco. Lo stabile si trasforma presto in un enorme deposito, un gigantesco magazzino pericolante, usato anche come riparo dagli sfollati del paese.
Nel 1961 si decide per la demolizione. Ottenuti i finanziamenti, il progetto di rivalutazione dei locali viene approvato nel Consiglio comunale del 23 Dicembre del 1965. I lavori si aprono tre anni più tardi, nel giugno del 1968.
Chi oggi può raccontare di aver partecipato o assistito a qualche rappresentazione nel vecchio teatro, all’epoca era un ragazzino o poco più. Tuttavia i ricordi sono lucenti, e dai racconti si capisce molto. Alla fine, non è difficile immedesimarsi in queste persone, comprendere le emozioni di chi è salito fino al loggione o ha seduto in platea per attendere la prima movenza del sipario.
Ma insieme a questa piacevole memoria e agli aneddoti più divertenti, non c’è soltanto l’enfasi naturale della giovinezza in un paese diverso, in un’Italia diversa con esigenze del tutto diverse. C’è anche molta consapevolezza, la consapevolezza di un errore collettivo e comune, grave e irreparabile, allungato su tutto un trentennio, che ha privato Ostra Vetere di un vero e proprio gioiello.
* Le informazioni storiche che ricostruiscono la vita del “Concordia” sono tratte dal libro “Teatro e Teatranti a Montenovo” di Alberto Fiorani, Ed. Centro Cultura Popolare, Ostra Vetere 1983.
Si ringrazia sentitamente per la gentile concessione.
di Matteo Mariani
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